Che giornate! Questa è l’ultima serata che passeremo a Tokyo, e vi scrivo dalla camera dell’albergo – colpevolmente io e chiara abbiamo abbandonato Akihabara alle prime avvisaglie di tramonto per tornare a giocare a tetris con le valigie e la montagna di cazzate che ci siamo comprati (e abbiamo comprato per chi ce le ha chieste, spazio permettendo).
Vi abbiamo lasciato con un report della vistia ad Harajuku. Il giorno dopo ci siamo separati: Cumi, il Bardo e Ladro sono andati alla Comiket (abbreviazione per Comic Market), mentre io e chiara abbiamo fatto turismo vecchia scuola. Il comiket, per chi se lo chiedesse, è una enorme fiera dedicata al fumetto autoprodotto giapponese. Motore di questa fiera sono i vari circoli di mangaka semiprofessionisti, che sfornano fumetti di qualità variabile a ritmi che farebbero dire pure a Aleksej Grigor’evič Stachanov “woah ragazzi, fermatevi un secondo”.
Anche se forse più che “ragazzi” direbbe “Tovarich”.
Insomma in questa fiera di paese (che raccatta circa 560mila sfigati ogni sei mesi, dato che è semestrale) c’è un quintale di persone che fa file elaborate per prendere materiale che nasce raro e dopo due settimane diventa introvabile. Per capirci, lucca quest’anno ha avuto un numero record di visitatori con circa 220mila. Questi ne fanno un milione largo l’anno. E si tratta solo di autoproduzione.
I banchetti dei circoli di solito cambiano ogni giorno, e per navigare il marasma spaventoso viene stampato un catalogo delle dimensioni di un elenco telefonico (come ormai saprete, non scherzo quasi mai), si creano file ordinate e con regole imperscrutabili a noi Gaijin.
Gran parte dei fumetti, inoltre, contengono materiale borderline safe for work. Ogni fantasia e feticcio ha almeno un circolo ad essa devoto. Il bardo, per esempio, è finito senza accorgersene (sotiene lui) nella zona dedicata a (così la descirve) “uomini occidentali barbuti che si amano puramente”. E’ stato occhieggiato dalle ragazze dietro ai banchetti lungamente, visto che il caso ha voltuo (così sostiene) che vicino a lui ci fosse un alto svedese barbuto.
Qui nel travelblog non giudichiamo. Ci limitimo ad osservare e riportare.
Mentre i nostri tre compagni di viaggio si divertivano nel mondo (tra gli altri) dell’omoerotismo, io e chiara solcavamo le carrozze della Kihin Tohoku line alla volta di Shinjuku. L’albergo, che sembrava in culo ai lupi, si rivela essere in posizione strategica, visto che da Kamata parte proprio la Kihin Tohoku (tra diverse altre) che taglia pr bene Tokyo a metà. Fermate degne di nota: Harajuku, Shibuya, Shijuku, Tokyo Eki, Akihabara, Ueno… Potrei continuare, ma mi ricordo solo queste e dovrei iniziare ainventare. Kotara. Shabero. Tonkocha.
Il nostro obiettivo a Shinjuku non è un qualche bislacco centro commerciale, negozio d’alta moda o museo; no, io e Kya puntiamo verso un negozio di sei piani dedicato esclusivamente a mangaka, artisti e drogati di cancelleria. Spendiamo un paio d’ore frugando ogni singolo piano stupendoci della quantità della roba esposta e sopratutto dei prezzi. I PREZZI. Chiara si agguatta, tra gli altri, due raccoglitori uso book che in italia ha visto da circa 15 euro l’uno. Prezzo nella terra di Yamtao: circa 500 yen, poco più di 4 euro.
Spendiamo più soldi di quanto non vorrei ammettere in cancelleria varia, veniamo accompagnati gentilmente all’uscita da due commesse cortesi ma decise quando esprimiamo il desiderio di trasferirci nel loro reparto “penne, agende, profumo di libro nuovo”.
Purtroppo sorge un problema: dopo tre giorni di vagabondaggio a Tokyo e diversi altri di vagabondaggio tra Nagoya, Kobe, Yokohama e Busto Arsizio a chiara iniziano a far male i piedi. I suoi stivali, robusti e comodi, la stanno tradendo.
In nostro soccorso viene il provvidenziale spirito del capitalismo: passiamo di fianco ad un centro commerciale in cui intravedo zaini e mazze da golf. Ipotizzio possa trattarsi di un decathlon giapponese (de-ka-tu-ro-n), ed entriamo alla ricerca di un paio di calzature più adatte. Saliamo all’ultimo piano, sporting goods, e iniziamo a cercare.
Troviamo un sacco di scarpe, ma a prezzi un po’ proibitivi; Scendiamo al reparto MEN AND WOMEN (non si sa cosa, se fashion, arredi, o altro) e veniamo accolti da un’atmosfera familiare: siamo entrati nell’OVS di Tokyo. Frughiamo un po’, stupendoci del fatto che il fashion maschile sia pessimo mentre quello femminile sia fottutamente kawaii e pienodi maglioncini supermorbidi e robine puccettose, quando troviamo la zona scarpe. Chiara si prova un paio di vorrei-ma-non-posso all stars che trova sottisfacenti, e io le consiglio di provare le “scarpe delle locali”, un tipo di calzatura che abbiamo visto ai piedi del 90% delle ragazze del posto.
L’interno di peluche vince ogni resistenza, e chiara cammina felice su un tappeto di pelo. “E’ come caplestare dei gattini, ma senza le ossa che danno fasidio”, direi io, ma non lo dico, perché lei mi picchierebbe con un martello da dieci tonnellate (tutte le donne, in giappone, possono evocare a volontà un martello da dieci tonnellate).
Lasciamo la graziosa harajuku alla volta di shibuya, dove voglio visitare Tokyu Hands, un negozio che la mia guida definisce “pieno di oggetti ce non sapevate di volere assolutamente”. Ciò che tralascia è che si tratta di otto piani su tre edifici, spaziando dagli adesivi (piano 1A) alle provette per esperimenti chimici (piano 8C), passando per i trucchi di magia (6B) e altre amenità di questo tipo.
Lasciamo dopo un paio d’ore anche questo ennesimo tempio del consumismo fine a se stesso, e ci infiliamo in uno starbuck per mangiare qualcosa di diverso dal solito. Non sono in grado di convogliare la sorpresa quando scopro che nel menu c’è l’orange mocha frappuccino.

CON CIOCCOLATO! e un viaggio gratuito al pronto soccorso, i cui dottori non hanno prestato il Giuramento di Ippocrate, perchè non si usa. Me li immagino, mentre iniettano marmellata ai pazienti: “primo non far male! lol”
Ma posso assicurarvi che la mia reazione è stata esattamente questa:
Coadiuvata dal fatto che alla ricezione dell’ordine, tutti e sei i baristi hanno ripetuto assieme e all’unisono “HAI! ORANGE MOCHA FRAPPUCCINO!”.
Potevi quasi vedere la scintilla della gioia morire nei loro occhi ad ogni parola.
Dopo pranzo risaliamo sulla solita linea dei nostri cuori per raggiungere Akihabara. Lo scopo è lasciare a briglia sciolta chiara nel negozio della Azone (bambole e succedanei), così che domani si possa concentrare sulle cose importanti, ovvero gadget di anime e manga e statuine di poppute signorine poco vestite.
Ci infiliamo nel negozio, subito fuori l’uscita Electric City della stazione. Il negozio è stio al piano quinto di un palazzo di piani otto come tanti ce ne sono nella cara Akiba, stipato fino all’inverosimile di gadget, fumetti, statuette, carte, poster e sopratutto sfigati (e ci conto ovviamente anche me e chiara). Scoprirò in serata grazie a Cumi che l’alta concentrazione di Gaijin è dovuta al fatto che dal Comiket un gruppo di 4channers si è spostato ad Akiba. Mi serve ridefinire la mia nozione precedente di “sfigato” per poter proseguire la serata, e faccio nota mentale di chiedere a Cumi un timbro con il kanji di “disappunto” da timbrare sulla fronte di un paio di casi estremi.
Dopo aver sbavato per quattro piani su ogni possibile, immaginabile e inimmaginabile oggetto per cui avrei ucciso nella mia adolescenza, raggiungiamo il negozio di bamboline ed accessori. Non posso fare a meno di notare che la clientela è principalmente maschile, e sembrano tutti appartenenti alla categoria “pochi capelli, occhiali e mascherina” tanto spesso usata nei manifesti della metropolitana con la scritta sotto “se vedi un maniaco, avverti le autorità”.
Sarà un caso, mi dico.
Ciedo a Chiara se il posto le piace. “Niente di che, a Nagoya il negozietto mi sembrava meglio”, dice riempiendosi il cestello di scarpe, occhiali, vestitini, mani, piedi ed altre parti anatomice più o meno nobili.
Torniamo in albergo carichi di piccole persone nelle nostre borse, mollo chiara a farsi il bagno di tutti i bagni e mi riaccodo al Bardo e a Cumi, che mi aspettano per cenare con due amici locali di Cumi.
Sono molto stanco, a questo punto; non solo non mi ricordo i loro nomi, ma gli porgo anche la mano per stringerla. Nei loro occhi il terrore è l’unica espressione che riesco a leggere, ma ormai non posso tirarmi indietro.
La cena prosegue in un pout-purri di lingue – Cumi funge da interprete per i passaggi spinosi, ma entrambi parlano un inglese passabile (ovvero eccezionale, per gli standard giapponesi – ma con una lingua come la loro è un miracolo che siano in grado di parlarne una totalmente aliena come l’inglese, ed anzi plauso al buon Cumi per la sua padronanza del Nihongo). Ci salutimo, e noi italiani ci gettiamo in un pub che abbiamo notato la sera prima vicino all’albergo. Il pub fa parte di una catena, Hub, e nonostante non sia niente di eccezionale ha buone birre ed una gustosa selezione di Pub Grub, tutto molto bene quindi. C’è anche una partita di uovomano in tv; la giornata si conclude in maniera più che adeguata.
Il giorno dopo decidiamo di prenderla bassa ma bassa bassa; Cumi e il Bardo tornano al Comiket, io e chiara ci alziam, vediamo la pioggia incessate, ridiamo e torniamo a letto. Appuntamento a pranzo: recuperiamo Ladro, che causa ginocchio si è preso pure lui una giornata di riposo, e recuperiamo il Bardo per andare ad Akiba (Cumi è dato per disperso; ci arrivano suoi messagi in italiano sgrammaticato, del tipo “watashi wa bene, no worry, tutto bene, no cerca io”, quindi supponiamo sia stato rapito e usato come modello dal club di amanti degli occidentali. Sappiamo che è così che voleva andarcene, quindi non facciamo nulla).
Cerchiamo un posto dove mangiare (tonkatsu, per la cronaca), e alla fine del pasto veniamo raggiunti da Cumi, con i vestiti logori, la barba lunga e gli occhi scavati. Non gli è successo niente, è solo che ha dormito poco per poter uploadare su 4chan le foto delle cosplayer. Comprensibile.
Facciamo un salto rapidissimo da Yadobashi Camera per recuperare un paio di accessori per la macchina fotografica (qualcuno ha perso il tappo dell’obiettivo) (io), e poi ci rituffiamo nel flusso di traffico di Akiba.

il fatto che i palazzi siano tappezzati di pubblicità di anime è segno di incredibile avanzamento culturale – o di un profondo disagio sociale. Scegliete voi.
Cumi è visibilmente scosso. “non ho abbastanza soldi. non ci sono abbastanza soldi in tutta tokyo”, dice. Compriamo qualche altro ninnolo e curiosità, dividendoci e incontrandoci tra un piano e l’altro.

“hai visto il negozio con gli slime i dragon quest?” “si. hai visto il negozio con i gundam?” “visto? mi sono comprato il 10% delle azioni”
La serata ci trova molto più poveri, in un McDonald e poi al solito pub, dove buttiamo giù le basi per Gaijin no Katana. La storia, di cui ovviamente non vi posso parlare per i soliti accordi di riservatezza, prende sempre più forma. Chiara butta giù un rapido schizzo dei protaonisti. Maggiori informazioni in futuro.
Lasciamo il Pub, non prima di aver imbucato un sondaggio sulla qualità del posto trovato sul tavolo, che potrebbe o meno aver contenuto le frasi “too clean” e “not enough irish songs”. Dormiamo.
Al nostro risveglio, ci attende una nuova gita: Ueno, e la Todai (abbreviazione di Tokyo Daigaku, l’università imperiale di Tokyo, sfondo di moltissimi manga e anime, come ad esempio Love Hina).
Cumi parte alle sette antelucane per il terzo giorno del Comiket, dedicato ai fumetti definitely not safe for work e al raduno di 4chan (ma guarda te a volte i casi della vita), mentre il resto della Spedizione Diplomatica si muove verso la Todai.
All’ingresso un guardiano sembra volerci fermare, ma il nostro aspetto di tremendi demoni bianchi lo dissuade. Entriamo dai cancelli, e anche noi possiamo dire di essere stati alla Todai. la nostra gioia è palpabile:
Purtroppo il professor Mark Canguro, in visita all’istituto, ci spiega che essere stati fisicamente alla Todai non equivale ad averla frequentata con profitto, e quindi benché tencicamente siamo stati alla Todai, ed essere tecnicamente corretti è il miglior tipo di correttezza possibile, in realtà siamo solo due deficenti.
Salutiamo il Bardo e Ladro (li rivedremo poco dopo ad Akiba) e ci intrufoliamo nel cuore pulsante dell’università per sbucare poco dopo nel parco di Ueno. Il parco ospita un laghetto ed un miliardo di papere ed altri ucceli acquatici, che a differenza dei loro compatrioti più selvatici tollerano l’uomo e si fanno fotografare di buon grado. Tagliamo per una graziosa pagoda buddista, lasciamo l’area del lago e ci addentriamo nel parco vero e proprio.

Siccome l’offerta tipica in un tempio buddista consiste nell’accendere un bastoncino di incenso, potete immaginare l’odore acre – sembra di stare in casa di quella tua zia pazza che forse starebbe meglio nelle mani di un serio professionista ma che è ancora appena appena da questa parte della linea tra la neurodeliri e l’autonomia.
Entriamo nel parc vero e proprio e giriamo senza meta per qualche tempo. Ci sono un sacco di lanterne di èietra sparse in giro, e gatti che ronfano beati al sole. Proviamo a chiamarne uno, si gira a metà con una faccia che dice “non so come sei abituato a casa tua ma qui se mi rompi i coglioni mentre dormo ti sguaro la faccia, gaijin di merda”. Proseguiamo.
Nonostante la quantità infinita di turisti, il posto rimane un piacevole parco giapponese. Seguiamo a caso delle indicazioni e ci troviamo in un santuario shintoista dedicato a Ieyasu Tokugawa, fondatore dell’omonimo clan ed uno dei tre uomini responsabili per l’unificazione del giappone.
Il posto è certamente bello da vedere; purtroppo ci sono troppi turisti che ignorano bellamente i cartelli che spiegano i rituali di purificazione che si dovrebbero affrontare se si intende appocciare l’Honden, o le normali norme di rispetto per cui in un luogo sacro eviti che i tuoi bambini corrano in giro gridando come ossessi. O magari era una possessione, e sbaglio io.
Vediamo anche una quantità infinita di lanterne di bronso, simili a quelle in pietra già viste fuori.
Scopriamo, tramite un utile cartello bilingue, che le lanterne non servono a scopo di illuminazione, ma i fuochi accesi al loro interno sono utilizzati per purificare l’aria durante determinate cerimonie shintoiste.
Incrociamo gli altri due (cumi è sempre disperso nel marasma del Comiket, con 4hcan extra in cima per maggior gusto) per vsitare il flagship store della Tamiya. Ci rechiamo a pranzo in un locale che dev’essere tipo il fast food del ramen di tokyo, dove premendo tasti a caso su un distributore (sono molti i posti così, è un modo bizzarro ma comodo di piazzare l’ordine) mi viene recapitata una scodella di ottimo ramen.
Il bardo prende lo stesso piatto che scelgo io, ma nella versione piccante. Iniziamo a ingozzarci. “com’è?” gli chiedo. Non capisco la risposta tra le lacrime e i colpi di tosse, ma fa cenno di si con la testa e solleva il pollice.
Ce ne andiamo al negozio della Tamiya – che è chiuso per ristrutturazione.
Ridendo e scherzando (o smadonnando, non ricordo precisamente) torniamo alla stazione, per tornare nuovamente ad Akihabara. Il pomeriggio prosegue sereno, visitando diversi negozi e raccattando gli ultimi ninnoli da regalare, quando lo vedo.
In vetrina.
LUI.
Urusei Yatsura, in italia semplicemente “Lamù”, è stato il rpimo di una eterna serie di manga. Per me è il simbolo di una feta gigantesca della mia vita, e posso affermare con certezza che, senza Lamù e la Takahashi oggi non sarei qui. Questo mio utlimo acquisto è la coronazione ideale del nostro soggiorno a Tokyo.
Domani: Takayama, per un capodanno in Ryokan, dove verremo ingozzati come oche da Paté da una simpatica vecchina che conosce il significato della parola “no”, ma non quello della parola “pietà”.
Sai che mi è venuto il magone alla fine? Anche per me la takahashi è stata la prima ma, nel mio caso, trovai in edicola un paio di albi di ranma e un paio di maison ikkoku targati granata press. Mio dio le lacrime ;___;
Per il resto del post invece ho riso sguaiatamente XD