l00maca's Travel Blog

Days Thirteen to Sixteen – Vendo queste belle giacche di pelle…

Hai capito i pirati, con le loro isole, a dire “no, no, non vale la pena questa carriera, poi l’assicurazione medica é uno schifo, non parliamo degli incidenti sul lavoro”

E intanto attraccavono in isolette tipo le Bermuda, dove metti un piede a terra e quello che vuoi fare é: niente.

É notte fonda quando arriviamo, scendiamo dall’aereo direttamente sulla pista e c’é una luna che sembra l’inizio dei pirati dei caraibi. Davanti a noi alla dogana una coppia di colore che durante il volo ha estratto dal bagaglio a mano un cartoccio di pollo e patate, e vorrei star scherzando. L’unica cosa che li salva dallo stereotipo é che il pollo non era fritto.

La simpatica doganiera ci chiede se é la prima volta che veniamo alle Bermuda, quanto stiamo, e quando torniamo. E vuole vedere i biglietti. Panico mentre cerchiamo i biglietti di ritorno nella cartelletta dei documenti di Chiara Kara, che nel frattempo ha generato fogli extra che all’inizio del viaggio non c’erano. Risolviamo anche questa ed incontriamo il nostro autista per la serata.

Si chiama Jimmy, ha un dente d’oro e musica caraibica in macchina.

Jimmy ci carica su un minivan tremendo che guida con uno sprezzo del pericolo che non definisco impensabile solo perché a New York ci siamo giá stati. I primi cinque minuti pensiamo che questo pazzo voglia farla finita (o procurarsi una gamba di legno da accoppiare al dente d’oro), quando ci ricordiamo che alle Bermuda si guida a sinistra.

Jimmy fa quattro curve ed arriviamo al resort, dove un’enorme hostess di colore che mandava vibrazioni da “mamma-lincoln-che-ti-nutre-a-morte-di-soul-food” ci mette in mano chiavi, brochure e ci affida alle cure di un facchino di cui non ho colto il nome, ma credo fosse Bill Mangiaferro.

Costui ci ricarica su un altro minivan (a questo punto siamo rassegnati ad essere meri gusci di noce nella corrente degli eventi) che dopo un paio di dossi presi a 30 all’ora e curve col freno a mano si ferma davanti al lodge dove si trova la nostra camera, tenuta a 10 gradi dall’aria condizionata per combattere i 28 gradi umidissimi presenti sull’isola.

Dormiamo, cullati dai suoni delle bermuda: sciabordio, grilli e un qualche uccello del cazzo il cui verso é tipo CAPIÚ CAAPIÚ CAAAAPIIIÚ, solo piú irregolare e insistente.

Il giorno dopo di buon’ora ci dirigiamo al ristorante, dove un concierge che sembra danny de vito nero e simpatico ci accomoda davanti ad un buffet pantagruelico, con tanto di schiavo cuoco a disposizione per la cottura istant di omelette. Chiara mi impedisce di chiederne una con dentro tutto quello esposto, e mi accontento di un piatto imperiale di dolce e salato che da solo potrebbe sfamare il Darfur, prima di andare a verificare la situazione spiaggia – piscina.

La situazione é la seguente: le previsioni davano 5 giorni di pioggia incessante, ed invece abbiamo beccato 5 giorni di sereno ma ventoso. La spiaggia era una striscia di circa 200 metri per venti persone, con annessa baietta brulicante di pesci. A coronoare, piscina e hot tub. Oh, yeah.

Capirete che con queste premesse, il mio desiderio di fare turismo per davvero e non il classico prosciutto al bagno é scemato piú rapidamente del prestigio del Made in Italy dopo gli annunci dei nuovi prodotti di Lapo Elkann. Il primo giorno lo passo in spiaggia a finire il libro iniziato in aereo (Ender’s Game) sentendo chiaramente Frank che canta That’s Life.

Chi mi conosce sa che non amo l’acqua, e anzi ho espresso piú volte il mio fastidio per gli ampi specchi d’acqua, non soltanto perché sono certo della presenza, la sotto, da qualche parte, del grande Cthulhu. La veritá é che una volta che entro in acqua é difficile farmi uscire; cosí capita che passi dieci minuti a fare il morto a galla raggiungendo l’illuminazione zen prima che chiara mi venga a toccare chiedendomi se sono vivo, perché una signora si stava preoccupando.

Inoltre, sono tipo 12 anni che non nuoto; entrare in acqua é stato traumatico anche nel senso in cui ero tipo “hurr how do I not drown now”. Matte risate le prime due o tre volte che ho rischiato la morte in 70 cm d’acqua. Vorrei avere un video di quando ho provato a fare due vasche a rana in piscina. per non mostrarvelo.

A parte le ore spese al sole/in mare/in piscina, l’unica escursione l’abbiamo fatta verso Hamilton, la capitale delle Bermuda. Una ridente cittadina di circa salcieloquanti abitanti abbarbicata sulla baia, che abbiamo visitato in circa mezzora, in cui abbiamo incontrato bermudian danny de vito che ci ha chiesto cosa ci facevamo in giro cosí presto (erano tipo le 9.30).

Hamilton é molto carina; sembra costruita apposta per separare i turisti dal peso del denaro, ed é stato arduo trovare un supermercato dove fare qualche scorta per non essere dipendenti dai prezzi da ladrocinio del resort (e dicono che la pirateria é morta). Abbiamo anche visitato il forte, probabilmente i primi turisti ad arrampicarcio sulla collina dove é sitop dai tempi in cui veniva utilizzato dai militari.

Torniamo allegramente all’albergo, dove procediamo a passare il pomeriggio a cuocerci in spiaggia ed io inizio il secondo libro (Good Omens).

Anzi no; grazie alla lungimiranza di chiara, per la prima volta nella mia vita vado al mare e non mi brucio. Grazie alla sua lungimiranza e ad una crema solare con fattore di protezione 50, spalmata in quantitá industriali ed aiutandomi con una cazzuola.

Il giorno dopo decidiamo di fare qualcosa di diverso; invece di colazione, camera e spiaggia facciamo un pulito colaziopne e spiaggia, finisco il libro e inizio il terzo (Hunger Games – don’t judge). Optiamo peró per un pranzo fuori dal resort, in questo localino chiamato Swizzle Inn che abbiamo visto il giorno prima, dove mi ricordo che internet prometteva ottimi hamburger.

A tal p[roposito, internet: il resort voleva 40 dollari per 4 giorni di wifi. Pago la stessa cifra per un mese di fibra in Milano, quindi decidiamo di passare. Passiamo 4 giorni senza nessun contatto con l’esterno. Non so ancora se sia stato un bene o un male.

Entriamo in questo locale, a metá tra un pub e un covo di pirati e ci viene detto di metterci dove ci pare. Attiriamo láttenzzione di una cameriera a cui chiediamo dei menu e iniziamo a studiarli.

Ah: nelle bermuda si parla inglese. una via di mezzo tra l’inglese di sua maestá e l’americano. é incomprensibile. Ma poi lo capisci. All’inizio senti tipo ASrembnthkogrdr? e poi il cervello dice “no, ok, ha detto ‘are you ready to order’. spero.”

Studiamo un pó il menu e poi decidiamo per una caesar salad (Kara) e uno Swizzle burger (io), con nachos da dividere. “da dividere il children size va benissimo” ci dice Dy (la cameriera).

Arriva questa torre pendente di nachos. quindici centimetri di nachos al chili, con salse extra a parte. Proprio mentre stabilisco l’impossibilitá oggettiva di terminarli, Dy mi piazza sotto il naso un vitello morto a forma di hamburger e due chili di patatine fritte. A chiara tocca un cespo d’insalata e due polli.

Direste che abbiamo capito la lezione; Sbagliereste.

Torniamo il giorno dopo, determinati a non farci fregare. Decido di ordinare un chicken finger meal (pollo fritto, patatine e honey mustard! che mai potrá succedere?), chiara prende un salcielo chicken wrap (“c’é un limite al pollo che puoi infilare in una tortilla”, dice) e di nuovo, nachos da smezzare.

“prendo anche due bicchieri di questo rum swizzle”
“vi segno la mezza brocca, risparmiate 3 dola”
, dice il cameriere

Dicesi rum swizzle: succo d’arancia, succo d’ananas, un combo di tre rum diversi da bersi intonando “quindici uomini, sulla cassa del morto, oh oh oh, e una bottiglia di rum per conforto”.

Sono sicuro che i succhi fossero solo aromi. Secondo me era solo rum.

Arriva il cibo. Nel mio cestello hanno fritto un pollo intero, e per non separare la famiglia uno anche nella tortilla di chiara (“non c’é limite, se usi una tortilla grande abbastanza”). Con l’entusiasmo di quelli che han detto “oggi mangiamo leggeri” affrontiamo un chilo di pollo e uno di nachos a testa, annaffiati da rum come se fosse la festa dei caraibi.

Il pomeriggio lo passiamo in camera comatosi.

Nei depliant turistici si parla della leggendaria cortesia dei Bermudiani (ensi?) e devo ammettere che effettivamente non ho mai incontrato nessuno cosí cortese e disponibile. Prendi la cortesia affettata britannica, stemperata da un pó di spensieratezza ammerchena, e lasciate tutto a stufare su un’isola battuta dal sole in mezzo al pacifico; é facile capire come mai questa gente sia sempre disponibile e sorridente. Plus, sono chiaramente pirati.

Ripartiamo stamattina all’alba, sempre con Jimmy, e per una volta non sono io ad essere placcato alla dogana ma Chiara; quella faccetta innocente non inganna nessuno, e gli ispettori sono molto tristi di non poterci trattenere in quanto siamo piú innocenti di un uccellino. Tentano nttamponi, perquisizioni e domande a bruciapelo (“how are you today?”) ma alla fine passiamo la dogana.

Al momento siamo al JFK, un aeroporto al cui confronto la stazione degli autobus a Famagosta é glamour, in attesa del nostro volo. Esso partirá tra circa quattro ore. il gaudio é intrattenibile.

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