Con una precisione che avrebbe fatto imbarazzare d’orgoglio anche l’Imperatore Hirohito in persona, ci siamo presentati alle ore 08.00 presso la stazione di Kyoto per prendere l’espresso diretto a Nara, città piena di templi e cervi e ciliegi e templi e cervi e ciliegi e templi e cervi e ciliegi e templi e cerv e insomma avrete capito.
Nara è seconda a Kyoto per numero di siti protetti come patrimonio mondiale dall’UNESCO, e per 75 anni è stata capitale del Giappone, prima che la capitale venisse spostata a Kyoto per sfuggire alle ingerenze del clero buddista. Questo spostamento permette a Nara di venire risparmiata da incendi, razzie, guerre, sciami di cavallette, fulmini a ciel sereno, attacchi di godzilla ed altre disgrazie che tendono a colpire le capitali Giapponesi; quindi gran parte dei templi che visiteremo sono originali, e non ricostruiti. A parte quelli ricostruiti perché ai giapponesi piace ricostruire le cose.
Iniziamo la giornata in maniera spumeggiante; dobbiamo prendere un biglietto apposta, extra Suica ed extra JR Pass. Prendiamo il biglietto, ci sediamo sul treno ed in mezz’ora siamo nella ridente Nara.
Ridente lo è davvero; la giornata è calda, il cielo è poco nuvoloso e la città è davvero carina.
Passeggiamo pigramente nel parco, nella generica direzione del Todai-ji, il tempio più famoso di Nara, col suo budda da 15 metri. CI fermiamo a prendere una patata dolce arrostita (che ancora mi mancava; buona!) e ci infiliamo con gli altri turisti nella via d’accesso al tempioValerio, folgorato sulla via di Damasco Nara, si innamora della mascotte locale, il cervo Shikamaru, e acquista icone sacre (portachiavi) e paramenti liturgici (cappello con corna in peluche). Si autonomina Gran Sacerdote e cerca di dirigere i cervi locali in processione, venendo vieppiù ignorato.
I cervi che, abituati ai turisti, appena subodorano che io e il bardo ci stiamo smezzando una patata dolce pretendono venga loro pagato il dazio. Mi ritrovo a nutrire a bocconcini un gruppetto di quattro o cinque cervi, che competono per la mia attenzione prima con tenere testatine, poi con meno teneri morsi sul culo.
I cervi, inoltre, erano considerati messaggeri degli dei; quindi sono protetti dalla legge giapponese come “Patrimonio Culturale”. Loro lo sanno benissimo, e ne approfittano per fare quello che pare loro, tipo attraversare con infinita calma una strada trafficata. Si tratta di una compagnia divertente, anche se viene da chiedersi quanto stressati possano essere ‘sti poveri cervi a ricevere ogni giorno centinaia di turisti, ma i cervi si limitano a mangiare, dormire, prendersi a testate a vicenda e a mordere l’occasionale pirla.
Iniziamo la visita al tempio; subito superiamo la soglia protetta dalle due statue di legno guardiane, ancora originali dell’epoca. Impressionanti.
Superiamo l’imponente soglia del tempio, ma la nostra attenzione viene attirata prima da un gruppo di carpentieri che stanno costruendo una replica della barca su cui vengono raffigurati i sette dei della fortuna shintoisti (cinque punti a chi se li ricorda senza usare google), e poi Valerio fugge a comprare del pane all’urlo di “devo nutrire le carpe, hanno bisogno di me”.
Nutrite carpe e cervi, proseguiamo verso il corpo del tempio e l’enorme statua del Budda, principale attrattiva del sito. La statua è massiva e pretende tutta l’attenzione che le puoi dare, considerando sopratutto che è stata costruita dalle mani dell’uomini e non dei, e in un tempo in cui la tecnologia edilizia non era quella attuale. Anche Vale, Bergamasco e quindi Magut per obbligo genetico, non può fare a meno di togliersi gli occhiali da sole e commentare “mother of god”.
Il resto dell’edificio è occupato da statue più piccole di budda minori ma non per questo meno importati, e da una colonna col buco. Infilarsi nel buco (a misura di giapponese medio, quindi europeo smilzo) pare porti fortuna; a me solo vedere quelli che provoano provoca una claustrofobia improponibile.
Abbandoniamo tempio e parco per il pranzo (Ramen, per chi se lo chiedesse), e dopo una breve pausa continuiamo la nostra passeggiata (a fine giornata tocchiamo i 22 chilometri, una mezza maratona, valà) che tocca i diversi templi buddisti e santuari shintoisti della zona.
Una cosa che ci incuriosisce e ci confonde è come all’ingresso dei templi buddisti ci siano le polle d’acqua usate nelle preghiere shintoiste per purificarsi. Un colpo al cerchio e uno alla botte.
Torniamo verso le sei a Kyoto, ceniamo sul tardi a causa della mia reticenza a doppiare il ramen anche la sera, e programmiamo la gita di domani: Himeji-ju, Kobe, e santuario di Inari.