l00maca's Travel Blog

Night City

Ci sono alcune costanti, nella vita, che raramente deludono. Una di queste postula che, se sono in ferie, allora mi ammalo.

Preparatevi, perché questo post sarà lungo.

La partenza da Otsumago è priva di eventi; alle sette ci svegliamo, ci prepariamo, arriviamo in stazione e prendiamo il treno della Playmobil che ci riporta alla civiltà. Da Nagoya prendiamo uno Shinkansen “locale” (che fa un sacco di fermate alla volta) che ci molla a Odawara, ridente cittadina sulla costa dell’oceano, da cui prendiamo un incrocio tra una metropolitana ed un regionale per raggiungere Hakone. La tratta, ahimé, è al di fuori dell’area di competenza del JR Pass, quindi i nostri superpoteri sono inutili.

Hakone, per chi non lo sapesse, è la città su cui verrà costruita Neo-Tokyo 3 in Neon Genesis Evangelion. Durante il lancio della nuova serie di film è stato anche aperto un negozio a tema (che visiteremo), che pur essendo un buco di tre metri per tre ha attirato schiere di fan da ogni angolo el Giappone, che hanno ostruito il traffico e dato fastidio ai residenti. La cosa ha fatto notizia, non tanto perché si sia spostato un giappone di gente, ma perchè ha dato fastidio.

Sasuga Nihon, I guess.

La città viene subito ribattezzata “Abano Terme”, sia per la presenza di terme ad ogni angolo, sia per la presenza di vecchi ad ogni angolo.

Raggiungiamo con fervore il Ryokan, che ovviamente non è pronto ad accoglierci (non è mai successo in Giappone che un ryokan/albergo avesse già le stanze pronte quando arrivavamo; sospetto che fosse semplicemente un modo per dirci “levatevi dalle balle una mezz’ora, vi portiamo su le valigie e non ci vediamo più finché non ve ne andate”). Su Tripadvisor abbiamo letto recensioni discordanti sul posto; specialmente, alcune recensioni parlavano di uno staff un po’ maleducato.

Con estrema maleducazione, lo staff ci accoglie, ci chiede quando vogliamo entrare in camera, e ci saluta con affetto.

Controlliamo le recensioni: gli autori sono cinesi.

In questa vacanza ho capito che due sono le categorie di turista più disprezzabili: il cinese che si muove in gruppo, e l’italiano che va in giro con la maglia della squadra di calcio.

Pranziamo e torniamo al Ryokan proprio mentre ci portano su le valigie. Lo staff, maleducatamente, ci accompagna in camera sprintando cinque piani di scale mentre noi usiamo l’ascensore (arrivano prima loro). Ci illustrano le feature della stanza (due stanze enormi con doppi servizi), ci portano degli Yukata adeguati alla nostra occidentale possanza e ci salutano in un mulinare di inchini.

Iniziano due giorni di relax. Passeggeremo pigramente per Hakone il primo giorno, acquistando ninnoli e vezzosità, per poi finire la giornata pucciandoci delicatamente nelle vasche termali (tranne Ladro che rifiuta certe pratiche pagane e Valerio che non ha voglia).

Ad un certo punto entro in una vaschetta secondaria rispetto all’enorme vascone, dove tre giapponesi di mezza età stanno discutendo amabilmente. Mi accomodo un po’ distante, ricambio i loro saluti, appoggio le braccia sulle rocce che compongono il bordovasca e mi accorgo che mi guardano strani.

Seguo lo sguardo.

Guardano il tatuaggio.

Con nonchalanche (ovvero goffamente) lo copro con il mio asciugamanino.

Ricominciano a chiaccherare.

Arrivail Bardo.

Si alzano, se ne vanno.

La sera, purtroppo, ci tocca la cena tradizionale. Gli anziani devono avergli detto del mio tatuaggio, dato che mangiamo in una stanza separata dagli altri con cinque camerieri diversi che ci servono. Non sappiamo cosa mangiamo, ma il Clan di Otsumago è soddisfatto, se non altro del trattamento.

Il giorno dopo decidiamo di provare, per pranzo, i Gyoza del Gyoza Center, un ristorante situato in un’altra parte di Hakone (come per Roma, l’area che viene definita “Hakone” comprende vaste aree di niente interpuntate da piccoli nuclei abitati. Tipo il GRA.). Per raggiungerlo dobbiamo prendere un treno locale, che scopriremo essere la più antica ferrovia montana del Giappone.

“Sembra il trenino rosso del Bernina!” dice Jack.

Il treno ha effettivamente una placca bronzata che dichiara un gemellaggio con il trenino rosso del Bernina.

Dopo mezz’ora di arrampicata arriviamo in mezzo al niente più totale. Superiamo una scuola elementare costeggiando una statale, oltrepassiamo un ponte ed arriviamo al Gyoza Center. Entriamo.

L’atmosfera è quella del Bar Sport di paese, dove quando entri salta la puntina del giradischi perché è entrato lo straniero. E questo se sei giapponese. Quando entriamo, uno dei camerieri si fa il segno della croce.

Veniamo accomodati nell’angolo più remoto possibile e veniamo ingozzati a forza di Gyoza. Tradizionali, di pollo, fritti, saltati, ripieni di riso; ogni tipodi Gyoza.

Ovviamente, sono tutti ottimi.

Abbandoniamo il Centro di Rifornimento Gyoza e discendiamo verso la valle e la civiltà.

Segue un amabile pomeriggio spalmati sui tatami a rilassarci (per alcuni di noi, “spalmati” è la definizione più adatta).

Dopo ulteriore visita notturna ai bagni (cosa che potrebbe o meno aver provocato l’insorgere di una lieve forma influenzale che mi porto dietro una settimana dopo) stabiliamo il tragitto per il giorno successivo. Potremo prendere possesso della casa di Tokyo solo dopo le quattro, quindi il piano è quello di mollare le valigie in albergo (e il personale, maleducatamente, accetta di conservarcele quanto vogliamo), salire su una corriera, raggiungere il lago Ashi e godere della vista del monte Fuji dal lago, prima di visitare il santuario di Hakone e tornare nuovamente alla civiltà.

La giornata è ventosa e soleggiata, molto bene quindi. Il Bardo, col suo charme tipico da rude europeo, convince una timida attendente della compagnia degli autobus a venderci dei biglietti giornalieri valevoli anche per la ferrovia. Saliamo sugli autobus, lasciando alle nostre spalle un altro cuore spezzato dal signore dei Gaijin, ed arriviamo in quota.

Il cielo è plumbeo, e per vedere il Fuji dovrò aggiungerlo in postproduzione con photoshop.

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Visitiamo comunque il grazioso santuario di Hakone, pieno di turisti nonostante il clima inclemente. Valerio studia la storia del santuario, che contiene mosse, pacchi e contropacchi tirati l’un l’altro dagli dei dello shinto, ma non riesce a condividerla con noi dato che l’autobus del rientro è pieno come un uovo. Trenta minuti di tornanti in piedi aggrappati ad una maniglia, e d’improvviso ogni nostalgia di casa scompare, confusa in vaghe visioni della 320 Assago – Bisceglie alle 7.30 del mattino.

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Forti del nostro biglietto giornaliero, saltiamo sul primo treno per Odawara e poi sul primo Shinkansen per Shinjuku.

Nella stesura dell’itinerario, io e il Bardo abbiamo deciso di tenere Tokyo come ultima tappa per due motivi; Primo, a Tokyo spenderemo tutti i nostri soldi. Secondo, se vedi prima Tokyo e poi Kyoto ti viene la depressione e muori.

Tokyo è Pandaemonium. Pura e semplice. A Tokyo c’è tutto quello che vuoi, in duplice o triplice copia. Vuoi le luci che ti bruciano la retina e grida e risate e casino? C’è. Vuoi il silenzio che non sai se sei a Tokyo o disperso sui monti di Nagano? C’è. Vuoi passare due giorni a frugare negozietti di due metri per sei nascosti sotto tre rampe di scale? C’è. Vuoi passare la sera a bere in un migliaio di locali tutti diversi eppure simili tra loro? C’è. Cosa vuoi fare? A Tokyo puoi.

Io adoro le grandi città. Amo visceralmente Milano, non volevo più andarmene da New York, e ovviamente a Tokyo mi sento a casa. Stormi di salaryman tutti uguali che inondano i treni la mattina e la sera, ragazzi che vanno a bere negli izakaya la sera e otaku che si riversano nelle strade e nei negozi di Akihabara sono uno spettacolo impressionante. Il respiro e il battito cardiaco di una città che veramente non dorme mai, nonostante i ristoranti chiudano alle nove (ma a noi che cazzo ce ne frega a noi, gli izakaya stanno aperti tutta notte).

La casa che abbiamo prenotato su Airbnb si trova vicino alla fermata di Yoyogi (a una fermata di distanza da Shinjuku). La troviamo abbastanza facilmente, e ne prendiamo rapidamente possesso. Gode anche di un bel terrazzino da cui si vede un pezzo della skyline di shinjuku, quindi non c’è proprio da lamentarsi. Una finestra si apre su quella che in italia sarebbe una piazza dello spaccio, ma qui è una piazza dove i vecchi danno da mangiare ai piccioni e i bambini giuocano felici.

Chiudiamo subito la tapparella.

Facciamo letteralmente due passi nell’immediato circondario prima di decidere di mangiare in un Ramenya sotto casa. Mangiamo un ottimo ramen, ed occhieggiamo un paio di locali dove potrebbe valer la pena tornare.

Inizio a non sentirmi proprio un fiore di campo.

Il giorno dopo sono chiaramente influenzato, ma al grido di “lol, Tokyo” ingollo circa due grammi di paracetamolo e partiamo alla volta della prima destinazione: Akihabara.

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Via il dente, via il dolore.

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Usciamo dall’ormai familiare Electric Town Exit, e i familiari palazzi ricoperti di immagini, suoni e colori ci accolgono ancora una volta. “Bentornati”, sembra  dirci Akiba, “mi sono mancati i vostri soldi”.

Il primo stop è allo Yadobashi Camera di Akiba per prendere un po’ di tecnologia a basso costo. Sprechiamo un paio d’ore visitando un centro commerciale grande circa quanto la provincia di Lodi, pranziamo (hamburger gustosi serviti in ambiente pseudo-oktoberfest. No, neanche io ho capito il collegamento), e poi ci separiamo alla ricerca chi di waifus, chi di souvenir, chi di un modo come un altro di spendere soldi.

Akiba è difficile da capire. Il quartiere in origine era la mecca dei radioamatori e degli elettricisti; e ci sono ancora negozi che vendono cavi al metro, connettori, led, invertitori, attuatori e componenti elettroniche tra le più varie; l’anacronismo di vedere un vecchietto che salda qualcosa su una breadboard, incastrato tra due negozi che offrono action figure e manga, è qualcosa che non posso che definire “tipico giapponese”.

Compro un capitale in bambole ed accessori per bambole per Kya, qualche ninnolo per me e poi mi accodo al Bardo.

“Che piani hai?”, gli chiedo.

“Boh. Cerco qualche posto con delle scalette strette e mi ci infilo e vedo cosa c’è”, risponde.

“E andiamo”

Frughiamo qualche negozio, dai più famosi a quelli sconosciuti. Troviamo un negozio di GdR con mezza parete dedicata a materiale del Richiamo di Cthulhu, un paio di oscure botteghe sotterranee piene di Forbidden Love, e qualche altra manciata di posti del genere.

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Torniamo a casa, assumo altri svariati grammi di paracetamolo e svengo tra le calde braccia di Morfeo.

Al mio risveglio, la meta è ancora Akihabara, dato che al bardo serve prendere un altro paio di cose. Torniamo a visitare un altro paio di negozi che avevamo perso (tra cui il quartier generale della Kotobokuya, mannaggia a loro), compriamo qualche dono e qualche altro ninnolo, e poi io e Jack abbandoniamo il gruppo per andare a pranzo da Yabaton, nella sede di Ginza; e ne approfittiamo pure per visitare un po’ Ginza.

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L’esperienza è diversa rispetto allo Yabaton di Nagoya; a Nagoya si trattava del tipico locale mangerecco giapponese, con caraffone di acqua o tè sul tavolo, in cui ti servi da solo di condimenti, tovaglioli e bacchette, in un ambiente con arredamento tipico da mensa delle medie. Qui il locale è molto più bello, con mattoni a vista, tavoli in legno laccato e omino a portata di mano che ti riempie il bicchiere. Ma sempre di Katsudon si parla, ed io a Jack ci mangiamo due orecchie d’elefante fritte spesse come la fedina penale di Al Capone. Acquisto una maglietta commemorativa, e si è fatto il tempo di andare.

Torniamo rapidamente a casa per appoggiare gli acquisti del mattino, abbandoniamo due catorci sotto le coperte (Vale e Ladro, anche loro influenzati), ed andiamo verso Shibuya, per vedere se è cambiato qualcosa nell’incrocio più famoso del mondo.

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Non è cambiato niente.

Girovaghiamo un po’ per le infinite viuzze fino a raggiungere Tokyu Hands. Credo che sia possibile dedurre un teorema per cui in un posto pieno di cazzate io e il Bardo troveremo sempre qualcosa da comprare, e il teorema non delude nemmeno qui. Compriamo qualche vaccatella prima che si faccia un po’ tardi; Torniamo a casa, che ieri sera Jack e Bardo hanno scoperto un locale niente male dove mangiare.

Il locale ha un nome per noi illeggibile, quindi lo ribatezziamo “Il Paradiso del Fritto”. Il posto funziona così: punti ad uno di circa trenta diversi cibi sul menù, e loro te lo infilano su uno spiedino, lo pastellano e lo friggono.

No, non sto scherzando.

Si, è esattamente come ve lo immaginate.

Ben presto il locale si riempie di salaryman e office lady che bevono, mangiano e si divertono. Le TV del locale mostrano un crudelissimo gioco a premi giapponese, che ci tiene allegri mentre aspettiamo l’arrivo del cibo. La birra è a buon mercato, e il mio higball contiene poco più di metà bottiglia di bourbon. La serata di prospetta delle migliori.

Due ore dopo, con 15.000 yen di conto pagato (e gli spiedini fritti costano dai 100 ai 200 yen), decidiamo di caracollare verso Marz, una famosa live house in Shinjuku.

“Dovremo costeggiare la zona dei locali pornacciosi”, dice il Bardo.

“sei sicuro che questo Marz sia un locale serio e non un front per un bordello della Yakuza?”, chiediamo noi.

“Ne parlano tutti gran bene”, conclude il Bardo.

Attraversiamo il cuore di Shinjuku, facendoci strada in una marea di completi neri e facce tra il “sono appena uscito da lavoro devo bere plz” e il “e noi che figli siamo, beviam beviam beviamo”, costeggiamo una strada piena di buttadentro ed arriviamo al Marz, che è esattamente come ti immagini una live house che fa rock; piccola, nera, buia e insonorizzata.

Sul palco, tre ragazze cantano.

Ad un certo punto, la cantante switcha da “questa è la mia voce kawaii da idol, nee–” a “salve, sono sven, è questo è growl”.

Rimaniamo allibiti. Vorremmo sentire di più, ma purtroppo siamo arrivati in tempo per goderci l’ultimo pezzo dell’ultimo gruppo di questa sorta di battaglia delle band. Decidiamo di skippare il meet and greet con le varie band e torniamo a casa, promettendoci di ritornare prima della fine della vacanza per sentire un concerto dall’inizio.

Prendiamo la metro per tornare a casa, ed una piacente office lady sceglie, in un vagone semivuoto, di sedersi vicino al Bardo.

Il giorno dopo, sveglia e preparazione rapida per un salto al Meiji-jingu, uno dei santuari più famosi del Giappone, per fare incetta di talismani e preghiere antisfiga.

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Arriviamo ad Harajuku, e subito sentiamo nell’aria una sorta di tremito nella forza, come se qualcuno stesse pensando “notice me senpai” con tutta la sua forza. Una ragazzina in età scolare, ipotizzo prima o seconda superiore, ci aggancia (mi correggo; aggancia il Bardo) e ci spiega di essere in gita con la scuola in un inglese più che passabile. Supponiamo che parlare con degli stranieri in inglese sia un esercizio richiestole dall’Imperatore, e rispondiamo alle sue domande. Scopriamo che viene da Hokkaido, e ci chiede cosa sappiamo di Hokkaido. Siamo in imbarazzo, perché quello che sappiamo di Hokkaido è, tendenzialmente, che è una desolata landa di disperazione piena di mucche, contadini, freddo, e orsi.

La ragazza ci conferma che effettivamente è così.

Corre tutta contenta dalle sue amiche, e noi proseguiamo la visita al santuario.

Il Meiji-jingu è sempre uno spettacolo impressionante. Piantato nel centro di Tokyo, sembra voler dire “esagera coi neon, tira il volume ad undici, fai un po’ il cazzo che ti pare; qui dentro sarà sempre un’oasi di pace, in cui i rumori della città non entrano”. Se sia merito del volere dell’imperatore Meiji o della folta barriera di alberi non lo so; quello che so è che è uno dei posti più pacifici di Tokyo.

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Visitiamo a fondo il santuario e il parco circostante, prima di recarci per pranzo al ristorante di Gyoza che avevamo già addocchiato due anni fa. Arriviamo all’apertura e veniamo sistemati sul bancone. Le nostre facce, serissime, spaventano il personale che non capisce bene in che senso stiamo ordinando ventiquattro ravioli a testa “per iniziare”.

Ad un certo punto si siedono di fronte a noi due che sembrano gesù e budda presi da “Saint Young Men”. Vorrei fotografarli ma per qualche motivo non riesco a metterli a fuoco (in realtà sono esattamente dietro due doppi vetri zigrinati, per cui non ho linea di tiro).

A fine pranzo, il proprietario/cassiere guarda due volte il conto.

Poi guarda me.

Poi, incerto, chiede “Min.. Minasan?” (“tutti assieme?”)

“Hai”, rispondo.

Sorride, riguarda il conto.

Non sorride più.

Batte sulla cassa “290 x 21”, con mano tremolante e incerta.

Pago, ringrazio.

Vengo ringraziato.

Il Bardo mi spiegherà poi che mi ha ringraziato utilizzando la forma di ringraziamento superiore ed estrema, riservata per quando ringrazi qualcuno di molto importante o dei gaijin che da soli ti hanno fatto mezzo incasso della giornata. Si tratta di uno sguardo che impareremo a riconoscere.

Proseguiamo verso Asakusa, dove visitiamo lungamente la Kappabashi-Dori, altresì conosciuta come Kitchenware Town, una lunga strada su cui si affacciano una pletora di negozi specializzati in articoli da cucina, sia al dettaglio che all’ingrosso. Negozi profondissimi e con scaffali ricolmi di ogni possibile articolo si snodano sulla via principale e nelle viuzze laterali. Il Bardo acquista a pochi euro un coltello che in europa si trova a non meno di trecento, ed è solo con grande fatica che lo convinciamo a non testarne il filo sui presenti o sui passanti ignari.

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Proseguiamo il nostro giro fino a raggiungere il Senso-ji, il più antico tempio di Tokyo. Il tempio è pieno di turisti, classi in gita, locali e sacerdoti indaffarati. Si tratta di un tempio buddista con a fianco un santuario shintoista; la leggenda vuole che due fratelli avessero pescato una statua del budda, e l’avessero presentata al capovillaggio come a dire, “e noi con questa che ce famo?”.

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Il capovillaggio decide di trasformare parte della sua casa in un tempio, e da quel tempio nel sottoscala (non so se fosse il sottoscala, ma mi piace immaginarlo) nascerà poi un tempio più grande, che Ieyasu Tokugawa investirà del ruolo mica da ridere di tempio tutelare del clan.

Io e il Bardo decidiamo di tentare la fortuna prendendo una, uhm, fortuna dal dispensatore di sfiga locale. Lui ottiene “Mancanza di Fortuna”, io ottengo invece “Miglior Fortuna Possibile”. Soddisfatto, intasco il foglietto mentre il Bardo si fionda a legare il suo in uno dei tanti spaghi acchiappasfiga presenti.

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Proseguiamo verso l’ultimo sito che visiteremo oggi, il Tokyo Skytree; meno famosa della Tokyo Tower, si tratta comunque della torre più alta del mondo, dall’alto dei suoi 634 metri. La sua funzione primaria è quella di antenna televisiva, dato che la Tokyo Tower si è ritrovata circondata da grattacieli da un giorno all’altro e il segnale non viene più trasmesso con la purezza richiesta dall’Impero.

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La torre è alta 634 metri, perchè (mi fido di wikipedia) i caratteri con cui si scrive “634” possono anche essere letti come “Musashi”, l’antico nome del quartiere ove essa sorge.

Alla base della torre, ovviamente, troviamo un centro commerciale di dimensioni spaventose,spalmato su sei piani. Prima di darci all’esplorazione del luogo decidiamo di comprare i biglietti in anticipo; e scopriamo che a causa dei forti venti la torre sta operando con solo due ascensori su quattro attivi, quindi ci conviene prendere i biglietti, fare la fila e salire senza fare troppe storie.

Obbediamo alla severa attendente che ci mette in fila in mezzo ad altri mille tra turisti e locali, e dopo a malapena un’ora abbiamo in mano i nostri biglietti.

Raggiungiamo in cinquanta secondi scarsi il primo osservatorio, a trecentocinquanta metri, dove assistiamo allo spettacolo del tramonto su Tokyo e alla città che lentamente si accende.

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Dall’alto,Tokyo è davvero infinita. Di giorno riesci a scorgere un limite, un termine delle costruzioni, nei punti in cui la terra cede al mare o alle montagne; ma di notte tutto quello che vedi sono le luci, i cavalcavia illuminati, e come bolle alcune zone che sembrano essere  immuni dalla notte; Shibuya e Shinjuku sono come fari nella notte, puntati al cielo, incastonati in un tappeto di luci disordinate di cui non sembra esserci fine.

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Ovviamente mi dimentico il teleobiettivo ed ho solo foto molto ampie. Mi congratulo con me stesso e spero che il Bardo scatti delle belle foto da rubare.

Scendiamo, mandiamo in panico un ristorante di Okonomiyaki e torniamo a casa.

Io, Jack e il Bardo decidiamo di fare un altro stop al paradiso del fritto; il cameriere ci vede, sorride a sessantanove denti, sposta un paio di salaryman e ci prepara in tre secondi un tavolo.

Ci sediamo, e ad un certo punto il cameriere ci spiega che purtroppo il cuoco non ce lo può friggere. Chiudiamo la serata con un biscotto al cioccolato fritto, e caracolliamo a letto.

Ci svegliamo all’ora che ci pare ed io, Jack e il Bardo andiamo al Gundam Front per la sola ragione di ritornare alla stazione della metro più bella di sempre (Tokyo Teleport, kek) e rivedere il Gundamone da 17 metri.

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Scopriamo che c’è il motor show di Tokyo, quindi passiamo una mezz’oretta a vedere vecchie macchine da rally, nuove macchine da pista, race queen e superpiloti che driftano in pista. Ci muoviamo verso Shimbashi alla volta del negozio della Tamiya, quando veniamo attirati dal canto delle sirene. Se le sirene fossero cinque ragazze adolescenti stonate.

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Seguiamo le voci altissime fino a raggiungere un capannello di gente che sta ascoltando la leader di un gruppo di idol (le dolls qualcosa, credo) spiegare qualcosa ai suoi fan. Decidiamo che la cosa non ci interessa, quando queste iniziano a cantare, e la solista pende una stecca alla terza parola.

Decidiamo di rimanere.

La cosa più spaventosa non è tanto lo spettacolo sul palco (il balletto è un po’ scoordinato e pigliano qualche stecca, ma dubito che superino i vent’anni a testa e cantare ballando come un’ossesso non dev’essere facile), ma il gruppetto di over cinquanta che conoscono a memoria le coreografie e le replicano mentre cantano.

Uno di questi è presente con la moglie.

Che sta facepalmando con l’aria consumata di una che lo fa spesso.

Lievemente scossi abbandoniamo questo spettacolo spaventoso (purtroppo niente foto, nemmeno del pubblico) e prendiamo un treno di superficie che taglia Tokyo, dalla baia alla stazione di Shimbashi, offrendo uno splendido spettacolo di architettura, ingegneria e pure tecnica, valà.

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Ma a noi al momento interessa arrivare a Shimbashi e ritrovare il Ramenya dove due anni fa il bardo ha preso un ramen così piccante che s’è messo a piangere.

Lo ritroviamo.

Il Bardo riprende il ramen, che arriva in una scodella piena di brodo arancione. Lo sento bruciare da trenta centimetri di distanza.

Mangiamo con gusto, mentre il Bardo ingoia il suo ramen superpiccante. Dopo un po’ ci dirà “ma non è così piccante”.

I funerali per le papille gustative del Bardo si terranno al nostro rientro in Italia.

(il Bardo stesso, la sera, mangiando un Jalapeno Burger, mi dirà “non sento più il piccante, aiuto”)

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Proseguiamo visitando il negozio della Tamiya, dove troviamo tutti i pezzi di tutte le mini4wd che volevamo da piccoli a prezzi ridicoli. Il Bardo si porta via un Plasma Dash a trecento yen (altro che le ventimila lire di quando s’era piccoli), io e Jack usciamo di corsa adducento scuse implausibili tipo “eh no non ci sta in valigia” per evitare di spendere un capitale in macchinine.

Ci dirigiamo verso la stazione per andare a visitare il Rikugien Garden, quando sentiamo delle armoniche nell’aria che sono inconfondibili. Quel misto di scaracchio, colpo di tosse e scopo che si respira attorno ad un tavolo da scopa.

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Ci guardiamo attorno e vediamo un gruppo di vecchi intenti a giocare a Shogi, dichiarando il passaggio di turno con un secco “tlock” del pezzo sul campo da gioco.

Osserviamo un partita appena iniziata. Dopo una serie di rapidi scambi, uno dei due anziani sta per concludere la mossa, ma scopre un trappolone, si ferma, guarda il suo avversario, incrocia le braccia, cambia a malincuore la mossa.

Il clima, tesissimo, è quello di quando il tuo socio a scopone esce di singola in prima mano e l’altri fanno scopa.

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Ci allontaniamo con estrema cautela e vistiamo il Rikugien, un parco-giardino voluto da Yanagisawa Yoshiyasu come giardini del Damyo. All’interno del parco ci sono ottantotto “punti” curati ad arte secondo alcuni brani di waka, le poesie brevi tipiche della letteratura giapponese.

I primi due punti andrebbero visti in inverno e autunno, rispettivamente, quindi abbandoniamo ogni speranza di vedere i punti precisi e girovaghiamo per il parco, che è comunque molto, molto bello.

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Alle quattro e mezza iniziamo le manovre di uscita, dato che il parco alle cinque chiude, e torniamo a casa.

Stabiliamo di prendercela bassa; cena in un burger joint incastrato tra un condominio e un cavalcavia dove passano treni ogni due minuti, con l’added bonus di Japanese Gilo alla piastra. Mangiamo degli ottimi hamburger, anche se pure qui i giapponesi falliscono miseramente nel comprendere il concetto di “bacon croccante”, e ci dirigiamo a casa per vedere qualche brutto animu prima di andare a dormire.

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E poi ho scritto ‘sto mappazzone spaventoso.

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